Sono ispirato e quindi scrivo. Ma anche no.
Dedicato a chi l’altro giorno mi ha detto: “Non sono ispirato, non sono nella condizione giusta, non riesco più a scrivere”.
Nei miei discorsi ancora un po’ sconnessi, quando le parole incespicano l’una sull’altra e corrono tutte insieme come i bambini all’uscita da scuola e si urtano e si spingono e si intralciano tra loro in un’allegra baraonda, forse non sono riuscita bene a esprimere cosa volevo dire. Lo faccio qui, così magari serve anche ad altri.
Il concetto era più o meno questo: per scrivere non serve essere ispirati. Lo si fa e basta. Come mangiare, dormire, coccolarsi o fare la cacca (sì anche quello, perché fare la cacca – e lo ripeto con grande gusto - è importante), anche se io personalmente trovo più giusto il paragone scrivere = meditare.
Il piacere di scrivere prima di tutto sta nell’atto stesso di mettere le lettere una dietro l’altra. Il cosa e il come - e magari anche il perché - vengono dopo.
Ma siccome capisco che se uno non lo ha (ancora) sperimentato potrebbe trovarsi un po’ disorientato, espando il mio pensiero.
L’ispirazione è un espediente, un alibi, una scusa, a seconda del lato da cui la si guarda.
Certo, all’inizio potrebbe sembrare una cosa del genere: sono ispirato e quindi scrivo (del resto il “fuoco sacro” emerge appena può, da una fessura stretta o da un varco aperto trovando sempre una strada per esprimersi). Certo, spesso il “fuoco sacro” si sprigiona sotto la spinta di una forte emozione - e allora è dirompente, vitale, energia allo stato puro, ma, come tale, poco controllabile, e quindi poco replicabile. Alla fin fine è lui che comanda.
E si ritorna al punto di partenza. Scrivo se e quando sono ispirato, altrimenti nulla.
Quindi? Serve un cambio di prospettiva. Ribaltando il rapporto di causa- effetto. Ecco come.
A ben guardare non è mai il mondo esterno che influenza il nostro agire, ma è sempre il contrario, anche se quasi mai ce ne rendiamo conto.
Soffermiamoci solo un minuto. Succede un fatto, mi provoca un’emozione, ne scrivo (spesso d’istinto, senza pensarci su troppo). E se non succede nulla?
Proviamo allora a considerarla in questo modo: l’evento esterno è un espediente, uno strumento che entra in risonanza con qualcosa che già esiste dentro di me e che lo mette in moto, lo accende. Ma – lo ripeto – il combustibile è dentro di me, non fuori, ed è sempre a disposizione.
Ora facciamo un passo in più. Se io possiedo già il combustibile e so che un evento esterno funziona solo da miccia, allora posso procurarmi da sola la miccia che più mi si addice, senza aspettarne una “casuale”. E può essere una miccia esterna ma, a questo punto, perché no?, anche interna.
Ecco che allora non ha più importanza la natura dell’evento, perché il processo ora è passato da fuori a dentro. In altre parole, ora ho imparato a manifestarlo attingendo a qualcosa già presente in me.
Decido che ho voglia di scrivere e lo faccio. Non importa di cosa parlo (non subito almeno: ovvio che se uno lo fa di mestiere, il cosa e il come hanno un certo qual peso, ma questa è un’altra storia). È finita la carta igienica? Mi si è allagata la cantina? Non so cosa cucinare? Sono immobilizzata e non posso muovermi? Tutto va bene, perché ora sono io che mi auto-alimento, mi auto-stimolo, in un processo potenzialmente perpetuo e quindi, appena inizio a “buttare giù” quello che mi passa in testa, tutto prende forma e significato. E si illumina. Di me e con me.
Facendo così mi rendo libera, perché tolgo la dipendenza da cause esterne, recupero autonomia, aumento la mia consapevolezza. E mi apro: al mondo, alla vita, al flusso di energia, al “fuoco sacro”. Ed eccomi al punto. Lo vedete? Ora sono io che ho acceso il “fuoco sacro”. Ho ribaltato la situazione. Mi sono messa in movimento, sono diventata dinamica. Il “fuoco sacro” è diventato un amico e scrivere non è più un problema.
Solo capendo che l’ispirazione è parte di noi, una risorsa, disponibile in ogni momento, con cui collaborare e non da cui essere dominati o dominare (che poi per certi versi è la stessa cosa perché implica una disparità delle parti, una prevaricazione), allora si riesce a dare un senso a quella strana cosa che si chiama “scrivere”. Che ovviamente non è solo tracciare simboli sulla carta, sulla sabbia o sul monitor di un device digitale, ma che parte comunque da un semplice gesto: mettere “nero su bianco” qualcosa che vibra dentro di noi e che chiede di essere espresso. Sul fatto che poi scrivere sia qualcosa di personale che ha un gusto e un sapore diverso ogni volta e diverso per ognuno siamo tutti d’accordo. Ma tutto nasce da dentro di noi. Una lettera dietro l’altra.
Per ora mi fermo qui. Un po' di pazienza fino al prossimo post, perché ho ancora qualcosa da dire ;)
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26 febbraio 2011
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