C’era una volta l’haiku. C’era una volta in Giappone. C’è ora una tastiera di un cellulare. C’è un dislpay su cui appaiono luminose e brevi parole. C’è ora in Giappone.
C’era una volta un “dar parola alla luce nella quale s’intravede qualcosa prima che scompaia dalla mente” (Matsuo Basho), ci sono ora “pagine fatte di frasi brevi, descrizioni ridotte all’osso, un linguaggio che nasce più dalle emozioni e dalla poesia quotidiana che dalla letteratura” (Alberto Castelvecchi).
Evoluzione, scrittura che si trasforma sull’onda tecnologica dei cambiamenti sociali. A volte però penso che il passato ritorni nel nostro presente senza farsi troppo notare. C’è poi tanta differenza tra un haiku e un keitai? O è solo l’anima di un popolo che nonostante tutto rimane fedele a se stessa?
Haiku. Un antico componimento poetico costituito da sole 17 sillabe. Breve, minimalista, zen. Un carpe diem nipponico, un “qui e ora” che intrappola fulminee emozioni in pochi tratti. Essenziale e moderno nasce in Giappone alla metà del XVII secolo.
Keitai. Sempre in Giappone, sempre la voglia di esprimere in qualche parola un mondo privato, emozioni che fuggono veloci. Il keitai è la letteratura del III millennio, il romanzo per cellulare. Anche lui breve, minimalista, zen. Scritto direttamente sulla tastiera del telefonino, è una storia a episodi fatta apposta per essere letta sul display di un cellulare, un “attimo fuggente fatto di puntini luminosi che riesce a vincere l’immensa solitudine dei ragazzi”. Per ora un fenomeno solo nipponico. Per ora.
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