28 dicembre 2008

Scintille di saggezza

"Tira fuori un altro taccuino, prendi un'altra penna, e scrivi, scrivi, scrivi.
Al centro del mondo, basta fare un solo passo positivo. Al centro del caos, basta solo fare un solo atto definitivo.

Scrivi e basta. Di' di sì, resta viva, sii desta. Scrivi e basta. Scrivi. Scrivi.

In fin dei conti, la perfezione non esiste. Se si vuol scrivere, bisogna tagliar corto e scrivere. Non esistono atmosfere perfette, quaderni perfetti, penne o scrivanie perfette. Perciò bisogna addestrarsi ad essere flessibili".

Natalie Goldberg, Scrivere zen , Ubaldini Editore, Roma, 1987

27 dicembre 2008

Dall’haiku al keitai. Quando lo zen incontra la tastiera di un cellulare

C’era una volta l’haiku. C’era una volta in Giappone. C’è ora una tastiera di un cellulare. C’è un dislpay su cui appaiono luminose e brevi parole. C’è ora in Giappone.

C’era una volta un “dar parola alla luce nella quale s’intravede qualcosa prima che scompaia dalla mente” (Matsuo Basho), ci sono ora “pagine fatte di frasi brevi, descrizioni ridotte all’osso, un linguaggio che nasce più dalle emozioni e dalla poesia quotidiana che dalla letteratura” (Alberto Castelvecchi).

Evoluzione, scrittura che si trasforma sull’onda tecnologica dei cambiamenti sociali. A volte però penso che il passato ritorni nel nostro presente senza farsi troppo notare. C’è poi tanta differenza tra un haiku e un keitai? O è solo l’anima di un popolo che nonostante tutto rimane fedele a se stessa?

Haiku. Un antico componimento poetico costituito da sole 17 sillabe. Breve, minimalista, zen. Un carpe diem nipponico, un “qui e ora” che intrappola fulminee emozioni in pochi tratti. Essenziale e moderno nasce in Giappone alla metà del XVII secolo.

Keitai. Sempre in Giappone, sempre la voglia di esprimere in qualche parola un mondo privato, emozioni che fuggono veloci. Il keitai è la letteratura del III millennio, il romanzo per cellulare. Anche lui breve, minimalista, zen. Scritto direttamente sulla tastiera del telefonino, è una storia a episodi fatta apposta per essere letta sul display di un cellulare, un “attimo fuggente fatto di puntini luminosi che riesce a vincere l’immensa solitudine dei ragazzi”. Per ora un fenomeno solo nipponico. Per ora.

10 novembre 2008

Esplorazioni

Una giornata alla scoperta dei Nativi Digitali

… che non sono una nuova e sconosciuta tribù dell’Amazzonia, ma le generazioni nate con il computer nella culla, quelli che, tanto per capirci, sanno chiamare la mamma via cellulare senza ancora saper parlare.

Sul tema delle generazioni digitali – gironzolando qui e là scopro che si chiamano anche millenial o DN (acronimo di Digital Native) – venerdì scorso si è tenuto un convegno alla Bicocca (una delle sedi dell’Università Statale di Milano).

Finalmente dopo tanto tempo una mattina intensa, di grande soddisfazione mentale, che mi ha vista fare equilibrismi logici saltando tra le forme espressive dei DN e le proposte di adattamento dei DI – gli immigrati digitali, quelli che le tecnologie neanche a saperne o che ci sono costretti perché il mondo ormai gira così.

Nuovi paradigmi di insegnamento per docenti e modelli educativi per genitori. E un libro: Digital kids. Come i bambini usano i computer e come potrebbero usarlo genitori e insegnanti.

Ormai sono rapita… :)
Che siano benvenuti i nuovi stimoli. Per ripartire alla grande a volte basta poco ;)

Alla prossima!

6 novembre 2008

Cosa vuoi avere?

Quando sei in stallo e non sai come uscirne

“Ora quando sento le persone chiedere: ‘Cosa dovrei fare?’ suggerisco loro di reimpostare la questione e di domandarsi : ‘Cos’è che voglio?’.
Invece di focalizzarsi sulla confusione generata dal fatto di avere di fronte due alternative (o più), concentrati su quanto vorresti avere – in termini di sensazione ultima che vuoi provare – cedendo al tuo bisogno di sapere esattamente come puoi arrivarci in questo momento.
Invece di farti bloccare da questioni specifiche, cerca di immaginare il tipo di sensazione che vorresti provare. Considera i tuoi problemi e cerca di individuare il risultato che ti stai sforzando di raggiungere”.

Carole Adrienne, Lo scopo della tua vita, Tea, 1998, p. 163

Ha funzionato. E continua a farlo.
Anche al lavoro :)

25 maggio 2008

Roteando e ruzzolando nel frullatore della vita



Nicholas Roerich, Gesar Khan, olio su tela, 1941


Quando tutto va bene. Quando comincia a girare. E a forza di girare ti ritrovi con un gran mal di testa.

Insomma: azienda nuova, vita nuova.

Scatto di carriera, nuove prospettive, libertà, creatività, connettività… BLA BLA BLA. Un gran divertimento.

Ambienti colorati (uffici gialli, celesti, arancioni), espressività (parli sinceramente di quello che pensi senza sentirti un'idiota), territorialità (bacheche personali dove appiccicare quello che vuoi. Per condividere. Per esserci. Per lasciare la tua impronta).

Feeling, contatto, apertura, condivisione, interazione. Interculturalità.

Uno stimolo costante.
Ore in ufficio per creare e ideare e progettare. Occhi spalancati nel pieno della notte per annotare meteore di idee che all’alba non ricorderesti più.

Bellissimo. Elettrizzante. Adrenalinico.

Ricerca, studio, aggiornamento, poliglossia (non è una malattia, solo che stando in un ambiente internazionale senti parlare almeno 3 lingue contemporaneamente).

Neanche un minuto per postare.

Scoperta, esplorazione, mondi nuovi e dimensioni parallele.

Libertà di dire, fare, pensare. Ad alta voce. Senza vincoli, senza gelosie, senza “Signor sì”.

E poi… STUMP. Vai a sbattere. Contro te stesso.

E allora abbandoni il ritmo frenetico per riacquistare il tuo tempo e la tua dimensione. Per riflettere.

E riflettendo capisci.

Capisci quanta soddisfazione dà il poter gestire un progetto in un ambiente sereno e produttivo.

Capisci quanto è stato naturale trasformare ciò che hai letto, visto, ascoltato in un sole, per vedere quello che prima era nascosto: te stesso, con gli altri, in un progetto; te stesso, con gli altri, in una rete globale.

E per la prima volta sperimenti sulla pelle il senso di World Wide Web, assapori il gusto sapido di ogni W, l’aroma tondo e avvolgente delle "o" e delle "e", scopri la triade perfetta che ti fa sentire veramente parte di quello che ami da sempre. Il tuo lavoro.

11 maggio 2008

Ispirazioni

A volte basta poco. Ma così poco che proprio non ci si pensa.

Quando sono in stallo mi concedo una piccola pausa, mi ritaglio un briciolo di tempo tra una consegna e l'altra e scappo in libreria.
Corro al reparto Ragazzi. Proprio lì, dove so che troverò un modo diverso di guardare le cose.
Inizio così a girovagare per gli scaffali. Senza meta, senza barriere, senza pregiudizi. Paziente e curiosa.

Ed ecco che trovo quello che cerco. Di solito sono volumi piccini, un po' defilati, in una sola copia. Ma geniali.

Questi sono libri che vogliono essere cercati, chiedono di essere ascoltati, oltre che letti, perché solo al lettore giusto svelano i loro molti tesori.
Sono libri senza tempo, adatti ai bambini come ai grandi. E sono lì che aspettano di essere scoperti.

Visto che sono stati così importanti nel mio percorso ve li segnalo, perché possano condurre anche voi oltre i limiti che ci poniamo ogni giorno.

- Leo Lionni, Piccolo blu e piccolo giallo, Babalibri, 1959

- Peter H. Reynolds, Il punto, Ape Junior, 2003

P.S.
Dimenticavo:

- Gilles Bachelet, Il kamasutra morbido, Il Castoro, 2008 (PER ADULTI)

Strepitoso! Dice tutto senza dire niente... Da gustare.

Tra passato e presente





Quando innovare non significa “inventare ex novo” ma “reinventare” il passato

Non c’è passato al quale si possa guardare con nostalgia, c’è solo l’eternamente nuovo, che è formato dagli elementi del passato che si estendono e la pura nostalgia deve continuamente essere produttiva, per creare qualcosa di nuovo e di migliore

J. W. von Goethe

Girovagando per la rete mi sono imbattuta in un progetto interessante: una tesi di laurea. On line.
Uno spunto stuzzicante per rimettere in prospettiva, per angolare diversamente un annoso ma quotidiano dilemma: si può veramente inventare ancora qualcosa? Abbiamo già detto tutto? Siamo condannati alla banalità eterna?

Io sono tra quelli che dicono “NO! C’è sempre qualcosa di nuovo in ogni giorno che nasce!”.

Eccone un esempio. Da imitare.

Andrea Novali, Ricostruzioni digitali, 2006

Progetto EXP.

13 aprile 2008

Rendimento e design

"L'impiegato rende meglio se il suo ufficio è più bello"

Banalità a parte: che finalmente qualcuno l'abbia capito?
Pare di sì a giudicare da quanto dice Fabio Cutri in un articolo apparso sul Corriere dell'11 aprile scorso.

Cito: "Perché le imprese ormai cominciano a capirlo: l'indice di soddisfazione estetica dell'impiegato e i bilanci della società sono legati a doppia mandata. E un buon design può rivelarsi la chiave giusta per migliorarli entrambi".

Qualche ricetta? Scopritela nel resto dell'articolo.

Io, da ottimista quale sono, voglio pensare che qualcosa si stia muovendo anche in qui in Italia e che nel futuro (prossimo?) di noi poveri dipendenti assediati per anni nella rocca degli arredamenti freddi e anonimi ci sia un ufficio - e un'azienda - finalmente a "misura d'uomo".

24 marzo 2008

Questione di diritti

Illuminante.

"Ognuno di noi ha il diritto al miglior lavoro possibile. Ognuno di noi ha il diritto di esprimere tutto il suo talento e le sue qualità.
Che poi questo non accada dipende da tutta una serie di fattori, come l'educazione, il nostro sistema di credenze, i nostri schemi incosci e, come al solito, da quanto siamo in grado di assumerci la responsabilità delle cose che ci succedono nella vita.

[...] Il lavoro non deve essere considerato solo come un modo per sbarcare il lunario oppure per accrescere il proprio potere sugli altri, ma deve essere visto come un mezzo fondamentale per sviluppare le condizioni di sanità fisica, mentale e spirituale di cui tutte le persone dovrebbero godere.
Non solo gli individui hanno diritto al lavoro, ma hanno soprattutto il diritto di sviluppare un'attività degna del valore di un essere umano.

[...] Appare inoltre chiaro che risolvere il proprio status di disoccupato, oppure avere una migliore retribuzione o godere di maggiore fiducia e stima da parte di colleghi e datori di lavoro, non influenza la nostra vita solo sotto un profilo di stretta sopravvivenza, ma ha una valenza ben più grande, andando a incidere sul nostro benessere interiore e sullo sviluppo di una società più sana e creativa.
Ma per produrre certi cambiamenti, naturalmente, dobbiamo innalzare il nostro livello di responsabilità e di causatività.
La società in cui viviamo potrà anche essere per certi aspetti inadempiente, ma occorre sempre ricordare che la condizione in cui ci troviamo è lo specchio delle nostre convinzioni, consce e inconsce, e di come esse creano giorno per giorno la nostra realtà.
Inoltre, al fine di ottenere un miglioramento su vasta scala, è comunque sempre necessario partire dal progresso individuale".

Pino Libonati - Loredana Volante, Il pensiero creativo, Milano, Xenia, 2007, pp. 74-76

5 marzo 2008

Luminescenze

"Oggi viviamo in ambienti bui che devono essere illuminati artificialmente per molte ore del giorno. Siamo costretti a passare la maggior parte del nostro tempo lontano dal benefico influsso della luce solare, in ambienti chiusi (edifici, auto, mezzi pubblici). Siamo sottoposti a una sorta di "inquinamento luminoso" , dato dal forte impiego della luce artificiale che, oltretutto, sfalsa i ritmi naturali notte/giorno, influendo sui livelli ormonali.
Studi condotti [...] da importanti istituti di ricerca sull'influenza dei diversi tipi di illuminazione su microrganismi, piante e animali, hanno portato alla conclusione che l'illuminazione artificiale utilizzata non permette un armonioso e normale sviluppo, perché priva della gamma benefica degli ultravioletti (la luce influisce su molti processi vitali , quali quelli metabolici, sulle ghiandole endocrine e sulla sintesi enzimatica".

Isabella Romanello, Il colore: espressione e funzione, Milano, Hoepli, 2002, p. 68

Sull'argomento sono stati scritti fiumi di inchiostro e non comincio nemmeno a citare gli studi più importanti e gli sviluppi più recenti.
Ho solo voluto dare un imput, lanciare una sfida di consapevolezza in più.

Ah dimenticavo: le soluzioni ovviamente sono varie e dipendono non solo dagli orientamenti personali, ma anche dalla disponibilità economica e dall'ampiezza del campo d'azione (in certi uffici è impensabile solo pensare di poter cambiare una lapadina o aprire una tenda, in altri invece un'adeguata illuminazione naturale e/o artificiale è quasi una banalità).

In ogni caso, per chi fosse interessato esistono in commercio delle lampade che emettono una luce artificiale molto simile a quella solare. Si tratta di lampade impiegate con successo anche nella cura di malattie depressive.

E se poi in ufficio non si riesce a spuntarla... si può sempre partire dal proprio ambiente domestico.

29 febbraio 2008

ElasticaMente

Quando elasticità mentale e realtà si scontrano.

Ovvero quando ciò che ti tocca gestire quotidianamente fa a botte con i tuoi bisogni, la tua etica, le tue idee...
Quando vorresti fare la cozza e chiuderti ermeticamente dentro la tua corazza, quando vorresti che proprio oggi andasse tutto liscio e che per una volta fossero gli altri a prendersi cura di te, a sorreggere il mondo al tuo posto...

Ma è proprio quando sei arrabbiata, quando urli a tutti i tuoi diritti invece di offrirli come un dato di fatto, quando batti i piedi perché vuoi attenzione, perché te la meriti, sai di meritartela, quando sei elastica come il granito, quando tutto il tuo essere tende spasmodicamente all'autoaffermazione... allora è il momento di mettere in pratica il "paradosso dello sciatore"

ParadossalMente

Spiego per chi non sa sciare, non gli piace, non gli importa un fico secco di imparare, non l'ha mai fatto e se l'ha fatto non lo rifarà più.
Il paradosso dello sciatore consiste in questo: sugli sci, per non cadere rovinosamente e trasformarsi in una valanga umana, bisogna spostare il peso a valle (sì proprio a valle) e non a monte come suggerirebbe la logica.
Sugli sci la logica non funziona: provare per credere!
È solo spostando correttamente il peso a valle che le forze sono in equilibrio e si ha il costante e perfetto controllo degli sci, velocità e direzione comprese.

In ufficio è la stessa cosa: secondo il principio di esho funi (unicità di vita e ambiente) più sei contratto e meno risultati ottieni.
So che è difficile, quasi illogico, ma è così, è una legge, come la legge di gravità (che a ben guardare se non la si conosce può generare quantomeno confusione: perché la Terra non casca sul Sole ma un libro ti casca sul piede?).

Paradossi scientifici a parte, è bene ricordare (parlo prima di tutto a me stessa) che elasticità non necessariamente implica sottomissione o totale e passiva accettazione.
Significa solo saper vedere le cose dal lato giusto, che in genere è proprio quello che non sappiamo trovare perché cementificati nella nostra corazza.

21 febbraio 2008

Quando lavorare fa bene (?)

C'è un aspetto del lavoro che mi sta particolarmente a cuore e che trovo sia ancora troppo trascurato: l'influenza dell'ambiente fisico sul benessere di ciascuno di noi.

Un luogo in cui trascorriamo la maggior parte della nostra giornata dovrebbe essere il più sano e confortevole possibile. Dovrebbe.

Negli ultimi anni l'attenzione sul rapporto salute - ambiente è cresciuta notevolmente.
Se qualche decennio fa il binomio salute-ambiente di lavoro veniva trattato solo su riviste specializzate, ora compare anche su siti o giornali più divulgativi. Se ne parla di più, si ha il coraggio di pubblicare studi scientifici e progetti o pubblicizzare nuovi prodotti.
Riviste di salute e benessere o di architettura ospitano interventi più o meno approfonditi sulle considerevoli influenze dell'ambiente di lavoro sull'umore, la salute e il rendimento delle persone.

È già molto, ma non è abbastanza: gli interventi concreti finora realizzati sono ancora un'eccezione.
Diventare consapevoli

Piccoli malesseri quotidiani sono spesso causati da un ambiente di vita malsano.
Le cause di un ambiente "inquinato" sono diverse: l'illuminazione (scarsa o di cattiva qualità), l'aria, gli spazi (angusti, sovraffollati, poco areati), il rumore, i campi elettromagnetici, i materiali utilizzati per la costruzione degli edifici o dei mobili , gli arredi (poco confortevoli), ...

Nonostante i progressi e le numerose iniziative private di consulenza, nel nostro Paese una cultura olistica della salute, che includa il monitoraggio non solo della qualità dell'aria o dell'acqua, ma anche dei luoghi in cui passiamo la maggior parte del tempo (l'ufficio, la casa, la scuola), si sta ancora lentamente formando.

Penso sia importante informare, formare e coinvolgere un numero sempre maggiore di persone; e incentivarle a intervenire concretamente nel proprio quotidiano.
A ben guardare infatti la consapevolezza deve partire innanzitutto da noi.
Sono convinta che "bioarchitettura" o "ionizzazione" devono diventare termini comuni e non essere espressioni "di nicchia" comprensibili a pochi adepti.

È il momento di cambiare


C'è una concetto buddista che si chiama esho funi, ossia inseparabilità di vita e ambiente.
Secondo questo principio non esiste separazione tra un individuo e il suo ambiente. Tutto fa parte di un'unica realtà: ogni cosa è quindi collegata all'altra e tutto è interdipendente.
Questo significa che un cambiamento attuato da una singola persona influenza ciò che lo circonda.
"L'ambiente è paragonabile all'ombra e l'essere vivente al corpo. Come senza il corpo non c'è ombra così senza essere vivente non c'è ambiente" (Nichiren Daishonin).
È semplice: se il corpo si piega l'ombra lo segue. Quindi ognuno di noi ha la possibilità di fare qualcosa di concreto per migliorare giorno per giorno il suo spazio e la sua salute. Naturalmente non è semplice, anche perché non si può certo andare dal proprio capo e fargli cambiare tutto l'impianto di illuminazione!

Come fare quindi? Seguendo il detto di Lao Tze: "Un lungo viaggio comincia da un solo passo".

Primo passo: iniziare dalle piccole cose.

Adatta la strategia all'ambiente

Ossia sii realista e analizza bene la situazione. Se lavori in un open space dovrai necessariamente trovare una soluzione diversa rispetto a chi ha un ufficio di 3 mq. O al tuo vicino che lavora in proprio e che magari può permettersi cambiamenti radicali.

1. Innanzitutto bisogna capire quanto è "inquinato" il nostro ufficio.
Una "lista della spesa" o una tabella possono essere utili. Una mappa mentale ancora meglio. A ognuno il suo metodo. L'importante è che alla fine si siano individuati i punti critici.
E se non siamo esperti e non siappiamo quali siano le fonti di inquinamento? Allora un po' di ricerca in rete può essere utile.

2. A questo punto bisogna valutare gli ambiti in cui è realisticamente possibile intervenire e quelli che è meglio accantonare (per il momento; le situazioni cambiano spesso velocemente).
Le variabili da tenere in considerazione sono tante: disponibilità al cambiamento di colleghi o superiori, accettazione di un'immagine diversa che l'ambiente modificato comunica, costo delle modifiche e così via.

Quello che posso dire è che è soprendente quanti alleati si possono trovare se si ha il coraggio di "rompere il ghiaccio".
Io per esempio comincio da cose piccole e apparentemente insignificanti, ma molto preziose: le piante. Che per chi non lo sapesse hanno moltissimi vantaggi ambientali.

3. Ora non resta che scegliere la strategia migliore di intervento. Se si deve convivere con altre persone in un contesto aziendale è comunque bene tener presente che:
    • i cambiamenti in genere spaventano; soprattutto quelli improvvisi e troppo radicali. Meglio scegliere quindi una strategia moderata, soft per così dire;
    • il rispetto delle esigenze altrui non deve essere dimenticato (magari non tutti apprezzano una finestra aperta in pieno inverno).
      Spesso bisogna arrivare a dei compromessi (per esempio si può decidere di areare la mattina appena arrivati, o nella pausa pranzo quando l'impatto è minimo e il risultato inalterato).


    Vi posso assicurare però che una volta iniziato i benefici non tardano ad arrivare e diventa possibile attuare cambiamenti più grandi e importanti. Provare per credere!

    17 febbraio 2008

    Il potere della parola

    Parola: energia sotto forma di suono.

    Suoni positivi consolano, rivitalizzano, rendono allegro un momento triste. Ogni suono attiva energia e suscita emozioni.
    Basta il suono giusto per svolgere in ogni istante il nostro compito al meglio. In ufficio, a casa, a scuola.
    Segni che suonano


    Un segno, un senso, una vibrazione. Un "suono" tracciato sul bianco del foglio o del monitor.
    Una frase scritta nel modo giusto incoraggia, rassicura, invoglia, incuriosisce. Ma basta poco per ottenere l'effetto contrario.

    Non ci sono regole, tranne una: se la parte più profonda di voi non sente quel suono non scrivetelo!

    Non importa se la sintassi è perfetta, se non ci sono refusi, se il titolo non fa una grinza. La forma conta solo se dentro contiene "il" suono, quello in quel momento più opportuno, quello che esprimerà il massimo potenziale del messaggio. La forma conta solo se amplifica la vibrazione del senso. Nient'altro.

    Ogni argomento, anche il più difficile o noioso, possiede un suono armonioso e un suono stonato. Sta a noi trovare l'alchimia che lo esprima nel modo migliore.

    Morale


    Spesso non diamo troppa importanza alle parole che usiamo, ai suoni che pronunciamo o tracciamo.

    Sono convinta che invece dovremmo farlo. Perché ogni volta che perdiamo l'occasione di esprimere qualcosa nel modo giusto priviamo qualcuno del sostegno, della simpatia o della bellezza che il nostro messaggio potrebbe dare.

    Rispetto

  1. Rispettare l'atto della scrittura
  2. Rispettare la parola, che sia scritta o sonora
  3. Rispettare chi ci legge, chi riceverà il frutto del nostro lavoro
  4. Rispettare noi stessi: i nostri ritmi, i nostri difetti, i nostri valori
  5. Rispettare gli altri: i loro ritmi, i loro difetti, i loro valori
  6. Rispettare il nostro lavoro
  7. Rispettare il lavoro di chi ti sta seduto accanto
  8. Rispettare (non necessariamente accettare o condividere) le idee e le opinioni altrui
  9. ...


  10. Sembra che oggi si sia perso il significato più profondo della parola "rispetto". Nel migliore dei casi rimane un lemma inserito in un dizionario, da rispolverare al momento opportuno per scrivere i soliti effimeri e stereotipati articoli o da sfoggiare in società quando si vuole far colpo con le "signore bene".

    Ma nella vita di tutti i giorni, quando siamo impegnati, onestamente impegnati, a dare il meglio di noi stessi con generosità e dedizione per realizzare un progetto, quando ci sforziamo di rendere migliore anche il più trito e noioso degli argomenti, quando cerchiamo di stabilire un legame, seppur breve, con chi ci leggerà, quando andiamo a cercare le parole più giuste per creare quel contatto amichevole che renda meno freddo il prodotto che stiamo vendendo o l'iniziativa che ci tocca sponsorizzare, che dica a chi ci legge o chi ci ascolta: "non sei un numero"; nella nostra più schietta quotidianità, insomma, cosa ne è stato del rispetto?

    Il rispetto, quello vero; non certo la supina e opportunista "educazione" verso chi temiamo o ci serve per gli scopi più diversi, ma il riconoscere la dignità umana nella persona che ci sta di fronte, chiunque essa sia, anche la più lontana dal nostro pensare o dal nostro sentire. Rispettarla in quanto essere umano, evitando qualunque atteggiamento che potrebbe in qualche modo ferirla o metterla a disagio.

    Questo naturalmente senza accettare passivamente ognuno e ogni situazione, ma ponendo attenzione ai nostri gesti e alle nostre parole, riflettendo un istante su quanto ciò che per noi è normale, quasi banale, può causare in persone con sensibilità diverse sentimenti poco piacevoli. Pensare prima di agire, mettersi nei panni dell'altro, porsi il problema che magari quello che stiamo dicendo, se venisse detto a noi, tanto piacere non ci farebbe.

    L'attenzione per il proprio lavoro, per l'altro, che sia un collega o il nostro pubblico, parte prima di tutto dall'attenzione per noi stessi. La sensibilità e l'empatia necessaria per lavorare in un gruppo, la capacità di ascoltare i collaboratori, di motivare chi si è scoraggiato, non sono altro che la manifestazione del nostro atteggiamento interiore, del rispetto che abbiamo di noi.

    Per questo penso che in ufficio, dove più che in famiglia si hanno contatti con tante persone, il rispetto lo si debba in qualche modo costruire, partendo da noi stessi per arrivare agli altri.

    In tutti questi anni ho sperimentato che quello che conta di più è l'esempio. Un gesto coerente e sincero vale più di mille parole. Perché per agire ogni giorno con onestà e rispetto ci vuole coraggio e la forza che tanti bei discorsi sull'etica non hanno.

    14 febbraio 2008

    Strutturiamoci: mappe mentali, mandala e tanta fantasia parte 1

    Vita d'ufficio


    Quando si scrive, e lo si fa per lavoro, bisogna ingegnarsi.

    Parola d'ordine: "ottimizzare": tempo, energie, risorse.

    A volte però non è così semplice, soprattutto quando i telefoni squillano, l'account ha bucato un appuntamento e non si astiene dal renderti partecipe, il tuo collega ha perso un file (oltre che il filo del discorso) e ti chiede aiuto. E tu devi consegnare per domani.

    Recuperare (e mantenere) la concentrazione in questi casi non solo è essenziale. È vitale.
    Soprattutto se il testo è lungo e complesso.

    Struttur-azione

    Ossia, come dice qualcuno, "per uscire dall'impasse metti l'azione".


    La cosa sembra facile, ma provate a scrivere qualcosa quando vi prende l'ansia da prestazione, conosciuta anche come panico da foglio bianco... non riuscirete neanche a scrivere un punto-e-virgola!

    Quindi fare qualsiasi cosa che possa sbloccare la situazione si rivela catartico. Basta un tic e tutto riprende a scorrere come (e forse meglio) di prima.

    Un sistema che a me riesce bene per risolvere la situazione è quello di cominciare dalla struttura.
    Banale, si potrebbe obiettare, lo consigliano tutti i manuali di scrittura.
    È vero: ogni testo dovrebbe partire dalla famosa e vecchia "scaletta". Ma la struttura che intendo io non è solo una scaletta. È più una mappa concettuale, ma assomiglia anche a un mandala. Una "mandalamappa" insomma.
    Si potrebbe considerare una cugina della lista di idee o del grappolo associativo (che parolone!), ma con una marcia in più.

    Mappando le idee

    Adesso va di gran moda utilizzare le mappe mentali per ogni cosa: a scuola, in ufficio, per fare la spesa...
    Devo dire però che mi intriga parecchio tutta questa esplosione creativa; e in ogni caso la mappa mentale è un utilissimo strumento di organizzazione del pensiero e di tutte le idee che sono lì nella mente, quelle che hai proprio sulla punta della lingua (o della penna) ma che chissà come non riescono mai a uscire.

    Il vantaggio di una mappa mentale è duplice: mette in moto la creatività perché libera la mente dal guazzabuglio noetico ed è più immediata di una scaletta perché sfrutta il potere evocativo delle immagini e l'ordine della visualizzazione spaziale. E in più porta allegria e distensione in ufficio.

    Complicazioni? No grazie

    Dicevamo: ottimizzare il tempo. In realtà la "mandalamappa" non è nulla di dispersivo o troppo complicato. È personalizzabile secondo le esigenze e non richiede molta manutenzione.

    Basta munirsi di un foglio A4 (possibilmente bianco; quelli della stampante vanno benissimo), qualche penna di colore diverso (se si riesce a recuperare una scatola di pennarelli è ancora meglio) e il gioco è fatto.

    Continua...

    O almeno mettercela tutta per farlo

    Come dice Tagore:
    "Il vero compito dell'uomo
    è trasformare l'impossibile in possibile con le proprie forze".


    E quindi al lavoro!

    Eccomi qui, alla mia "veneranda età", a cercare nuove prospettive per trasformare l'impossibile in possibile, ossia fare del mio mestiere (il content management) un modo non solo ber sbarcare il lunario, ma per farlo con piena soddisfazione e al massimo potenziale.

    Questione di content

    Ora, dato lo scenario attuale, la congiuntura geopolitica se vogliamo, è già molto difficile capire chi e di cosa si dovrebbe occupare un content manager. Se poi lo chiamiamo web content manager... allora siamo inguaiati.
    Per prima cosa delimitiamo il campo: editoria e, nel caso specifico, editoria multimediale.

    Ora, tralasciando il fatto che
    le nuove tecnologie (che ormai così tanto nuove non sono più)
    hanno creato
    nuove figure professionali (o hanno ampliato notevolmente le competenze di quelle vecchie),

    dare una definizione precisa di content manager è un compito abbastanza difficile, perché, per chi non lo sapesse, basta cambiare di poco area di lavoro e la confusione regna sovrana.

    Dunque, tanto per fare ordine, ho scelto una definizione che potrebbe calzare.
    Cito: "Il content manager è, nel caso dei prodotti multimediali, il componente del team di sviluppo che si occupa della gestione e del controllo dei contenuti. [...] È colui che definisce i testi in funzione dell'obiettivo e dei target di riferimento e che, non ultimo, elabora la struttura delle informazioni e la navigazione" (in Teroni, M., Manuale di redazione, Apogeo, 2007, p. 324).

    Sono io! Ovviamente prima di essere questo sono stata - e lo sono tutt'ora - anche questo: redattore.

    Questo sconosciuto. Di solito quando mi chiedono:"Che lavoro fai?" rispondo redattore perché tanto wcm (web content manager) non lo capisce nessuno. Ma nemmeno redattore! La risposta classica è: "Arredatore?!? Ah bello!".

    Quindi: un redattore è (o dovrebbe essere) "... colui che tiene i rapporti con gli autori e i collaboratori, che elabora i contenuti dell'opera corregendoli e uniformandoli, che controlla nel suo insieme l'opera e ne svolge la revisione, ne verifica la sostanza, la forma, la coerenza e la corrispondenza, cura l'uniformazione e lo stile del prodotto. Nel caso del redattore multimediale, è il responsabile ultimo dell'organizzazione dei contenuti" (Ibidem, p. 325).

    Fiuf, ce l'ho fatta! Io sono anche e soprattutto questo.

    Che l'impresa abbia inizio

    Ora che mi sono presentata, ritorno all'inizio del post: trasformare l'impossibile in possibile. Ossia cambiare prospettiva per trovare nuovi significati a un mestiere che a ben guardare un po' di secoli li ha. E che talvolta rischia di diventare noioso, soprattutto se gli editori, che dovrebbero essere i primi a "crederci", non ci credono più.

    Automotivazione quindi!

    E allora... primo passo: aprire un blog!

    "Lo fanno tutti" direte voi; bhè sì è vero, per me però, che lavoro nei new media, non è poi così scontato. Strano a dirsi, ma negli anni ho conservato un po' di quello spirito antico e, perché no?, ormai forse superato, che mi ha fatta laureare in greco antico.

    Già, sono laureta in lettere classiche. Ma con una tesi un po' all'avanguardia, tanto che il giorno della discussione (della tesi) è scoppiata una discussione (tra i prof) su quanto fosse spregiudicata! Ma questa è un'altra storia.

    Quindi eccomi qui a postare il mio primo post su Prospettive creative. Che ospiterà riflessioni (e divagazioni) sul mestiere editoriale e dintorni. E su come vedere il lavoro dal lato giusto. O almeno mettercela tutta per farlo!

    Grazie a...

    A proposito: un GRAZIE di cuore a Luisa Carrada, che sul suo sito (Il mestiere di scrivere) ha pubblicato un articolo molto interessante proprio su cosa significa per lei avere un blog e su quanto - come me - fosse inizialmente reticente.

    E ora... buona lettura a tutti!