28 febbraio 2011

Fuoco sacro – 3

Quando evitare le definizioni "è cosa buona e giusta"

Ossia in questo caso. Non ho alcuna intenzione di infilarmi in quel ginepraio (tanto di moda) che è diventato il dibattito su scrittura creativa, scrittori, come diventare cosa e via dicendo. Grazie mille, passo! Che di guru della definizione ne abbiamo già tanti.
Anche perché, per inciso, mi sento più affine al versante saggista-giornalista che non a quello narratore-poeta.

Sapete che vi dico? Forse uscire dal coma, con tutto il lungo processo rigenerativo che implica la guarigione (un vero e proprio ricostruirsi, cominciando pressoché da zero), mi ha fatto vedere il “mondo scrivere” con occhi più chiari. E sempre più spesso quello che leggo in giro mi sembrano dibattiti vuoti, che non portano a nulla. Sarà perché ho eliminato i fronzoli, le zavorre, le sovrastrutture. Sono tornata all’essenza, al nocciolo, alla quidditas (che ha un suono fantastico, ma che quando me la spiegavano a scuola ero sempre lì lì per capire e poi, zac, il senso mi sfuggiva ogni volta). Al “sugo del sale”, per dirla con Guccini.

Non critico il confronto o il dibattito. Reputo ancora essenziale riflettere sulle cose, interrogare, mettere in discussione, sfidare, cercare, approfondire. Continuo a pensare che riflessione, ricerca e introspezione siano ottimi strumenti quando ci aiutano a procedere nella nostra evoluzione personale, qualunque essa sia, e che diventino pericolosi quando invece ce ne allontanano.
Quello che però sento molto vivo - e che mi sforzo di far emergere piano piano per dargli respiro - è il senso pratico delle cose. La teoria senza la pratica rischia di essere solo vuota speculazione, esercizio mentale fine a se stesso. D’altra parte anche la pratica senza la teoria è zoppa.

Se dovessi scegliere un motto, ora sarebbe “Sperimentare e recuperare il gusto del fare”. Ecco perché in questo momento per me, prima di tutto, è importante fare qualcosa per il solo piacere di farlo, sentire scorrere sotto la pelle quel brivido eccitante e seducente che dà il “mettere mano” a qualcosa che appaga. Questo alla fin fine è il “fuoco sacro”. Nulla più.

E, checché se ne dica, è un fuoco che non si spegne. Può affievolirsi, covare nella cenere, restare sopito. Ma non si spegne. Se è inerte va risvegliato e alimentato, se è prorompente va incanalato e guidato.
Ci sono volte in cui va riconosciuto o scoperto e altre in cui invece ha bisogno di crescere e maturare. Ecco allora che, da questa prospettiva, lo spirito di ricerca, la discussione, il confronto e il dibattito acquistano un senso, diventano un modo per evolvere, sviluppare le proprie capacità, conoscere nuove idee, esplorare nuovi percorsi, per migliorare se stessi e l’ambiente in cui viviamo. Un giorno alla volta.

Ordunque, rivista la mia scala di valori, sfrondato i rami secchi, recuperato una visione limpida, eccomi qui a cercare di miscelare concretezza e idealismo in una ricetta diversa. Se migliore o peggiore non so, non l’ho ancora sperimentata. Si vedrà. Ma è una ricetta che cresce con me e se trovo un nuovo ingrediente da aggiungere all’ultimo momento… e sia. Senza troppe fisime.

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Fuoco sacro - 2

27 febbraio 2011

Se non c’è gioia, non va bene


“Quando aveva circa sette anni, mio figlio Owen si innamorò della E Street Band di Bruce Springsteen, in particolare di Clarence Clemmons, il corpulento sassofonista. Owen decise che avrebbe imparato a suonare come Clarence. Io e mia moglie ne fummo divertiti e compiaciuti. […]
Per Natale regalammo a Owen un sax tenore e un corso di lezioni con Gordon Bowie, uno dei musicisti della nostra zona. […]

Sette mesi più tardi proposi a mia moglie di sospendere le lezioni di sax, se Owen fosse stato d’accordo. Lui lo fu, e con palpabile sollievo. Non aveva avuto il coraggio di confessarlo, visto che era stato proprio lui a chiedere il sax, ma sette mesi gli erano bastati perché si rendesse conto che, per quanto amasse il suono potente di Clarence Clemmons, il sax non era cosa per lui: Dio non gli aveva donato quel particolare talento.
Io lo sapevo, non perché Owen avesse smesso di esercitarsi, ma perché lo faceva solo nei periodi che gli aveva assegnato il signor Bowie: mezz’ora dopo la scuola per quattro giorni la settimana, più un’ora durante il weekend.
Owen aveva imparato le note e le scale, non gli mancavano memoria, polmoni e buona coordinazione tra occhi e mani, ma non lo avevamo mai sentito partire per una tangente, sorprendere se stesso con qualcosa di nuovo, bearsi della propria musica. E appena finiva gli esercizi, lo strumento ritornava ne suo astuccioe lì restava fino alla prossima lezione o alla prossima esercitazione. Ciò che ne deducevo io era che tra il sax e mio figlio non si sarebbe mai stabilito rapporto di gioco; sarebbe stato per sempre un provare e riprovare. Non bene. Se non c’è gioia, non va bene. È meglio dedicarsi ad altro, dove le scorte di talento siano superiori e sia più alto il grado di divertimento.

Il talento toglie significato all’idea stessa di esercizio; quando si trova qualcosa per il quale si ha talento vero, la si fa (qualunque cosa sia) fino a farsi sanguinare le dita o cascare gli occhi dalla testa. Anche se non c’è nessuno ad ascoltare (o a leggere o a guardare), ogni sessione è un’esibizione di bravura, perché il creatore ne è felice”.

Stephen King, On Writing, Sperling&Kupfer, 2001, pp. 145-146

[Il grassetto è mio]

Fuoco sacro – 2

Quando fare non è essere. Perché se sei, fai, ma se fai, non necessariamente sei.

Complicato? Forse un po’.
Rifaccio.

Fare lo scrittore, ossia fare “la persona che scrive”, non è sinonimo di essere uno scrittore, ossia essere “una persona che scrive”.
Niente filosofie, non temete. Vado subito al sodo. La pratica e il “fuoco sacro” (titolo di questa miniserie di post).

Ho deciso di cominciare con un’esperienza “presa a prestito”, ma lascio a voi scoprire il perché. Sicura che la straordinaria icasticità di Stephen King e del brano che ha dato voce alla mia riflessione faranno la loro parte. Eccolo.

Questo per me è essere. Se fai con gioia è perché sei. E te ne infischi se qualcuno dice il contrario, perché tu sai.

Se percepisci con ogni singola cellula che nel fare “quella cosa lì” stai realizzando te stesso, se facendola, o pensandola, o progettandola, il tempo vola senza che te ne renda conto, se ti dà serenità e ti diverti nel praticarla e magari all’improvviso scoppi a ridete di gusto, se non vedi l’ora di dedicarti a questa attività e ogni momento è buono, se riesci a sentire di essere nato per “quella cosa lì”, qualunque cosa sia, allora sei sulla strada giusta, quello è il tuo “talento". Non ignorarlo. Mai. Perché seguendo il tuo dono troverai te stesso.

A me succede quando scrivo. E quando cucino, monto mobili, cammino, medito o…

Alla prossima puntata per il seguito :)

26 febbraio 2011

Fuoco sacro

Sono ispirato e quindi scrivo. Ma anche no.

Dedicato a chi l’altro giorno mi ha detto: “Non sono ispirato, non sono nella condizione giusta, non riesco più a scrivere”.
Nei miei discorsi ancora un po’ sconnessi, quando le parole incespicano l’una sull’altra e corrono tutte insieme come i bambini all’uscita da scuola e si urtano e si spingono e si intralciano tra loro in un’allegra baraonda, forse non sono riuscita bene a esprimere cosa volevo dire. Lo faccio qui, così magari serve anche ad altri.

Il concetto era più o meno questo: per scrivere non serve essere ispirati. Lo si fa e basta. Come mangiare, dormire, coccolarsi o fare la cacca (sì anche quello, perché fare la cacca – e lo ripeto con grande gusto - è importante), anche se io personalmente trovo più giusto il paragone scrivere = meditare.
Il piacere di scrivere prima di tutto sta nell’atto stesso di mettere le lettere una dietro l’altra. Il cosa e il come - e magari anche il perché - vengono dopo.
Ma siccome capisco che se uno non lo ha (ancora) sperimentato potrebbe trovarsi un po’ disorientato, espando il mio pensiero.

L’ispirazione è un espediente, un alibi, una scusa, a seconda del lato da cui la si guarda.
Certo, all’inizio potrebbe sembrare una cosa del genere: sono ispirato e quindi scrivo (del resto il “fuoco sacro” emerge appena può, da una fessura stretta o da un varco aperto trovando sempre una strada per esprimersi). Certo, spesso il “fuoco sacro” si sprigiona sotto la spinta di una forte emozione - e allora è dirompente, vitale, energia allo stato puro, ma, come tale, poco controllabile, e quindi poco replicabile. Alla fin fine è lui che comanda.
E si ritorna al punto di partenza. Scrivo se e quando sono ispirato, altrimenti nulla.

Quindi? Serve un cambio di prospettiva. Ribaltando il rapporto di causa- effetto. Ecco come.

A ben guardare non è mai il mondo esterno che influenza il nostro agire, ma è sempre il contrario, anche se quasi mai ce ne rendiamo conto.
Soffermiamoci solo un minuto. Succede un fatto, mi provoca un’emozione, ne scrivo (spesso d’istinto, senza pensarci su troppo). E se non succede nulla?
Proviamo allora a considerarla in questo modo: l’evento esterno è un espediente, uno strumento che entra in risonanza con qualcosa che già esiste dentro di me e che lo mette in moto, lo accende. Ma – lo ripeto – il combustibile è dentro di me, non fuori, ed è sempre a disposizione.
Ora facciamo un passo in più. Se io possiedo già il combustibile e so che un evento esterno funziona solo da miccia, allora posso procurarmi da sola la miccia che più mi si addice, senza aspettarne una “casuale”. E può essere una miccia esterna ma, a questo punto, perché no?, anche interna.
Ecco che allora non ha più importanza la natura dell’evento, perché il processo ora è passato da fuori a dentro. In altre parole, ora ho imparato a manifestarlo attingendo a qualcosa già presente in me.
Decido che ho voglia di scrivere e lo faccio. Non importa di cosa parlo (non subito almeno: ovvio che se uno lo fa di mestiere, il cosa e il come hanno un certo qual peso, ma questa è un’altra storia). È finita la carta igienica? Mi si è allagata la cantina? Non so cosa cucinare? Sono immobilizzata e non posso muovermi? Tutto va bene, perché ora sono io che mi auto-alimento, mi auto-stimolo, in un processo potenzialmente perpetuo e quindi, appena inizio a “buttare giù” quello che mi passa in testa, tutto prende forma e significato. E si illumina. Di me e con me.

Facendo così mi rendo libera, perché tolgo la dipendenza da cause esterne, recupero autonomia, aumento la mia consapevolezza. E mi apro: al mondo, alla vita, al flusso di energia, al “fuoco sacro”. Ed eccomi al punto. Lo vedete? Ora sono io che ho acceso il “fuoco sacro”. Ho ribaltato la situazione. Mi sono messa in movimento, sono diventata dinamica. Il “fuoco sacro” è diventato un amico e scrivere non è più un problema.

Solo capendo che l’ispirazione è parte di noi, una risorsa, disponibile in ogni momento, con cui collaborare e non da cui essere dominati o dominare (che poi per certi versi è la stessa cosa perché implica una disparità delle parti, una prevaricazione), allora si riesce a dare un senso a quella strana cosa che si chiama “scrivere”. Che ovviamente non è solo tracciare simboli sulla carta, sulla sabbia o sul monitor di un device digitale, ma che parte comunque da un semplice gesto: mettere “nero su bianco” qualcosa che vibra dentro di noi e che chiede di essere espresso. Sul fatto che poi scrivere sia qualcosa di personale che ha un gusto e un sapore diverso ogni volta e diverso per ognuno siamo tutti d’accordo. Ma tutto nasce da dentro di noi. Una lettera dietro l’altra.

Per ora mi fermo qui. Un po' di pazienza fino al prossimo post, perché ho ancora qualcosa da dire ;)

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Scintille di saggezza

25 febbraio 2011

Fermo immagine

"Scrivere è tirarsi su, mettersi a posto e stare bene. Darsi felicità, va bene? Darsi felicità".

Stephen King, On Writing, Sperling&Kupfer, 2001, p. 276

Tornare a vivere

Il buio. Il silenzio. Più nulla. Un incidente.
L’oscurità che brilla, il silenzio che canta. Il risveglio.
La luce che torna, il suono che avvolge. La guarigione.

Reinventarsi. Da principio. La sfida più grande.
Voglio provarci ancora. Voglio tornare a vivere. Qui. In un modo nuovo.

Sono tornata. Sono fuori dal coma. Ho un nuovo nome: Sole.